PARENTAL ADVISORY EXPLICIT LYRICS
Tu m’hai il cazzo in potta, in cul mi vedi,
Ed io vedo il tuo cul com’egli è fatto,
Ma tu potresti dir ch’io sono un matto
Perche tengo le man dove stà i piedi.
Perche io provi un si solenne cazzo,
Che mi roverscia gl’orli della potta
Io vorrei trasformarmi tutta in potta,
Ma vorrei che tu fossi tutto cazzo.
Che se tutta foss’io potta, e tu cazzo
Io sfamerei a un tratto la mia potta
E tu trarresti anco dalla potta
Tutto il piacer che ne può trarre un cazzo.
Ma non potend’io esser tutta potta,
Ne tu del tutto divenir un cazzo
Ricevi il buon voler della mia potta:
E voi pigliate del mio poco cazzo
L’animo pronto e’n giù la vostra potta
Calate, mentr’in sù spingo il mio cazzo,
E dopo sopra il cazzo
Lasciatevi andar tutta con la potta
Ch’io sarò cazzo, e voi sarete potta.
Pietro Aretino, "Sonetti Lussuriosi"
Commoditas haec est in nostro maxima pene,
laxa quod esse mihi femina nulla potest.
Un vantaggio ben grande ha il mio pene:
che nessuna donna è per me troppo larga.
Carmina Priapeia, XVIII
“Totus mundus agit histrionem”
Wiliiam Shakespeare
Volto Fescennino. Reperto archeologico trovato in area votiva a Corchiano (Antica Fescennium) II Sec. A.C.
"Gli antichi agricoltori del Lazio, dopo aver riposto il grano, davano ristoro, nei giorni di festa, al corpo e anche all'animo che aveva sostenuto le fatiche con la speranza di vederne il termine. Insieme con i compagni di lavoro, i figli e le mogli fedeli, essi solevano placare Tellure con un porco, Silvano con latte, il Genio che sa la brevità della vita con fiori e vino. L'usanza produsse la licenza fescennina (fescennina licentia) ch'ebbe sfogo in rustici sarcasmi a versi alternati. La libertà del fescennino, sinché si limitò a scherzi piacevoli, fu ben accolta nelle ricorrenze annuali. Ma gli scherzi divenuti crudeli cominciarono poi a trascendere in rabbiosi attacchi personali, penetrando truculenti e impuniti in case oneste e non furono più tollerati..."
Orazio, "Epistole"
Ma il Greco, poichè fu d’italo acetoSolennemente concio; O Bruto, esclama,Deh pe’ superni Dei tu che in costumeI Re dal mondo hai di levar, che indugiA scannar questo Re? Saria, me ’l credi,Questa un’egregia e di te degna impresa.
Tutto induce a pensare che l' "italum acetum" (Orazio, "Satire"), espressione latina traducibile con "aceto italico", celeberrima in campo teatrale ma anche di uso comune, che indica un carattere astuto, mordace e pronto a sdrammatizzare ma lasciando un velato amaro in bocca, tipico della satira, si esprimesse primitivamente nel riso sfrenato e nei rozzi versi a cui, secondo Virgilio ("Georgiche"), si abbandonavano gli antichi coloni con il viso coperto da maschere orrende di corteccia incavata.
Livio (III, 2, 4) parla di "carmi fescennini" che, in unione a danza e canto, costituivano il dramma primitivo.
Come nelle feste rusticane, così i fescennini ebbero adito nelle cerimonie nuziali che hanno esse pure carattere drammatico.
I grammatici antichi derivavano i fescennini o da fascinum sinonimo di phallos, o dalla facoltà attribuita al fescennino di scacciare il "fascino", o dalla città di Fescennio dove sarebbe nato.
(FESCENNINI, VERSI, Treccani.it)
La Via Amerina, il risultato di antichissimi tratti viari che collegavano Veio (da cui Via Vejetana) con Ameria (l’attuale Amelia)
Fescennio (lat. Fescennium), era un'antica città stato della regione falisca (Tuscia Viterbese), menzionata solo nella tradizione letteraria.
Non deve essere stata lontano da Falerii, l'antica città stato falisca nota come Falerii Veteresi cui resti archeologici si trovano nell'attuale centro storico di Civita Castellana.
Ipotesi archeologiche indicano i resti nel comune di Corchiano dove sono stati rinvenuti reperti dell'VIII secolo a.C.
I Falisci, in senso stretto "abitanti di Falerii", è il nome con cui i Romani indicavano un antico popolo italico dell'Etruria meridionale che risiedeva nella regione chiamata Ager Faliscus, sulla riva destra del fiume Tevere, che ne segnava il confine orientale.
Kylix a figure rosse, tomba a camera di Falerii Veteres, necropoli della Penna. Al centro un giovane nudo, che tiene nella mano sinistra un tirso, bastone sormontato da un viluppo d’edera in forma di pigna e attributo di Dioniso. Il giovane cinge una donna nuda, che tende le braccia verso il collo dell’amante. Intorno all’immagine centrale vi è un’iscrizione dipinta in falisco, che va letta da destra a sinistra. Riporta un detto popolare: "foied uino pafo cra carefo", in latino "hodie vinum bibam, cras carebo".
“oggi berrò vino, domani mi asterrò!”
I Falisci sono gioiosi, dediti ai piaceri, amanti del buon vino. Questo è quanto si deduce da alcune celebri iscrizioni falische, tra le quali una incisa in una coppa rinvenuta a Falerii.
Le iscrizioni rinvenute, che datano dal VII al II secolo a.C., sono scritte in un alfabeto molto simile all'alfabeto latino e dimostrano l'ipotesi di Strabone ("Geografia") secondo cui i Falisci erano di origine diversa dagli Etruschi.
Molto probabilmente, trovandosi per secoli accanto ad aree di influenza etrusca, sono entrati a far parte in epoca tarda della lega etrusca, quando le prime lucumonie dell'Etruria meridionale caddero contro Roma.
La vicinanza dei Falisci con gli Etruschi è tale da essere inclusi da Tito Livio ("Ab Urbe Condita") fra i popoli etruschi, insieme ai quali partecipavano ai concili federali presso il Fanum Voltumnae, il santuario "nazionale".
IL GRANDE FALLO
Commoditas haec est in nostro maxima pene,
laxa quod esse mihi femina nulla potest.
Un vantaggio ben grande ha il mio pene:
che nessuna donna è per me troppo larga.
Carmina Priapeia, XVIII
«Ritiratevi, fate posto
al dio! Perché egli vuole
enorme, retto, turgido,
procedere nel mezzo»
Semos di Delo
A Fescennio si svolgevano feste agresti e riti propiziatori affinché fossero di buon auspicio per la fertilità dei campi ed il prosieguo della prole.
Le feste rurali e i riti avevano il fallo come simbolo augurale, elemento caro alle culture antiche e più volte trattato anche da autori come Orazio e Catullo.
Sono note le falloforie, dette anche fallagogie, della Grecia classica, processioni solenni in onore di Priapo e Dioniso nelle quali si trasportavano enormi falli di legno (itifallo), simulacro del Dio, accompagnando il corteo con canti corali licenziosi (carmi itifallici).
Nel 1997, a Corchiano, lungo i sentieri falisci, è stata fatta una scoperta eccezionale ed unica nel suo genere.
All’interno di un pozzo votivo, sono stati ritrovati un enorme quantitativo di organi sessuali maschili e femminili in terracotta: poco meno di 2000 falli e 300 vulve, vagine e uteri.
Inoltre, nel 2016, osservazioni fotografiche e filmati realizzati da droni, nell’area sottostante il promontorio tufaceo del borgo antico e precisamente nel Monumento Naturale Forre di Corchiano, hanno rilevato un enorme picco tufaceo di forma fallica.
"Una caratteristica anatomica comune unisce il grande fallo ai reperti votivi fallici, quello di avere il glande scoperto. Tutto ciò porta a concludere che nell’antica Fescennium era presente un culto legato all’elogio della potenza sessuale sia maschile che femminile".
Il "Fascino" DI Fescennium, Giuseppe Orlandi
E voi pigliate del mio poco cazzo
L’animo pronto e’n giù la vostra potta
Calate, mentr’in sù spingo il mio cazzo,
E dopo sopra il cazzo
Lasciatevi andar tutta con la potta
Ch’io sarò cazzo, e voi sarete potta.
Pietro Aretino, "Sonetti Lussuriosi" (1792)
“Coloni versibus incomptis ludunt risuque soluto,oraque corticibus sumunt horrenda cavatis”
"I contadini fanno festa con versi grossolani e sghignazzate, prendono maschere repellenti, fatte di cortecce cave"
Nelle "Georgiche", Virgilio passa in rassegna i divertimenti generati lungo gli anni dal culto di Bacco presso i contadini latino-italici chiamati Ausonii.
I contadini, trasformati in "attori" con o senza una maschera o con il volto dipinto, improvvisavano, senza nessun copione o filo drammatico, in spazi allestiti ad hoc (una piazza, una radura, un prato ecc.), delle recite e dei giochi burleschi.
I commedianti, mascherandosi in maniera rozza, si scambiavano battute e versi dozzinali, parole volgari e licenziose, pronunciate allo scopo di ingraziarsi gli dei benevoli e allontanare i demoni maligni che avrebbero potuto arrecare danno alle attività campestri.
Deliciae populi, magno notissima circoQuintia, vibratas docta movere nates,cymbala cum crotalis, pruriginis arma, Priapoponit et adducta tympana pulsa manu:pro quibus, ut semper placeat spectantibus, orat,tentaque ad exemplum sit sua turba dei.
Io Quinzia, delizia del popolo, famosa nel CircoloMassimo, esperta nel muovere le sue vibranti natiche, dedica a Priapo questi cimbali e questi crotali,armi di arrapamento, e i timpani percossi dallamano stretta. In cambio di prega di far sì che essapossa sempre piacere agli spettatori e che la schieradei suoi amanti l’abbia sempre duro come il dio.
Carmina Priapeia, XXVII
"Durante le feste di Libero uno sconcio membro virile, esposto con grande solennità su un carretto, veniva trasportato dapprima in campagna nei crocicchi e poi fino alla città. Nel paese di Lavinio si consacrava a Libero un mese intero, durante il quale tutti pronunciavano delle sconce invocazioni fino a quando l'organo fallico non riattraversava la piazza e non veniva ricollocato al suo posto In questo modo si doveva propiziare il dio Libero per il buon esito dei semi, si doveva allontanare il malocchio (fascinatio repellenda) e per questo si costringeva una matrona a compiere in pubblico un rito che non si doveva permettere in teatro neanche a una cortigiana se le matrone fossero state presenti".
Agostino d'Ippona, "De civitate"
Nell'antica religione romana, il termine fascinum (o fascinus) poteva riferirsi al dio Priapo e alle effigi ed agli amuleti fallici.
L’immagine del dio Priapo campeggiava in orti e giardini con il suo enorme fallo, chiamato “fascinum”, il membro virile eretto in grado di scacciare, magicamente, il malocchio.
La parola italiana "affascinare" deriva da fascinus, complementare a "fascino", che in origine significa "malia, influenza malefica", che si ritiene possa emanare dallo sguardo degli invidiosi, degli adulatori.
In seguito ha assunto la connotazione metaforica che indica "potenza di attrazione e di seduzione".
Fescennini versus dicebantur, qui canebantur in nuptiis ex urbe Fescennina dicuntur allati, sive ideo dicti quia fascinum putabantur arcere.
I così chiamati versi Fescennini che vengono celebrati ai matrimoni sono riferiti alla città di Fescennia o per questo motivo nominati poiché ritenuti il Fascinun
Il filologo (grammaticus) Festo, riprendendo l’espressione di Seneca (Fescennini nuptiales), dice che le canzoni venute dalla città fescennina erano cantate alle nozze per scongiurare la mala fortuna.
Ne danno prova i versi di Catullo ("Carmina Catulli) in cui, a proposito delle nozze di due giovani, la sposa è accolta con punzecchiature fescennine (Fescennina iocatio).
La recita dei versi fescennini aveva quindi una funzione apotropaica, allontanare il malocchio dalla casa della nuova famiglia e dalla vita della coppia.
Doveva trattarsi di scambi di battute legate alla sfera sessuale, che avevano lo scopo di scatenare un riso sfrenato e rumoroso, allo scopo di allontanare demoni e fantasmi.
Le creazioni fescennine, secondo Sesto Pompeo Festo erano allegre canzoni popolari satiriche e spudorate.
La libertà di espressione risultava dalla funzione originariamente magica della canzone e le occasioni in cui venivano cantate erano probabilmente molto più svariate delle sole nozze: alle feste del raccolto, a quelle della vita quotidiana e in genere in occasione di qualsiasi evento legato alle forze telluriche.
Tali momenti o eventi erano sempre accompagnati da canzoni allegre e mordaci, pungenti come l’aceto.
"Possiamo azzardare l’idea che i fescennini, espressione originale e duratura dello spirito dell’Italum acetum, con la loro forma popolare, anonima, satirica e ludica, intrecciante poesia e spettacolo, movimento e maschera, siano il filone sotterraneo che dopo secoli uscirà in superficie – attraversando tante altre esperienze culturali, incluse quelle religiose – per irrigare lo spirito del carnevale italiano e delle sue mirabili e colorite manifestazioni".
Liviu Franga, "Dalla protostoria del carnevale: i versi fescennini", Orizzonti Culturali Italo Romeni, marzo 2018, anno VIII.
Obscaenis, peream, Priape,
si non uti me pudet inprobisque verbis.
sed cum tu posito deus pudore
ostendas mihi coleos patentes,
cum cunno mihi mentula est vocanda
Che possa morire o Priapo se non mi vergogno
di usare parole sconce e oscene;
ma quanto tu, che sei un dio,
lasciato da parte ogni pudore
mi esibisci i tuoi coglioni in bella mostra,
anche a me vien da dire cazzo e fica.
Carmina Priapea XXIX
ridendo castigat mores
«La licenza fescennina sorta attraverso questa usanza / improvvisò con versi alterni grossolane ingiurie»
Secondo lo stesso Orazio (Epist.), i versi fescennini avevano una forma dialogica, cioè erano successioni di battute improvvisate, contrasti spontanei su un certo argomento, essi erano in nuce delle rappresentazioni teatrali, totalmente libere da una sceneggiatura.
"la libertà fescennina (licentia, 145) di fustigare aspetti sociali e politici del tempo, o persino di stroncarli; la loro derivazione dalle pratiche religiose bacchiche (vv. 139-144); la tonalità sarcastica resa dal sintagma opprobria rustica (v. 146) per cui, a un certo momento i versi fescennini furono considerati un pericolo pubblico e furono puniti dalla legge (lex poenaque, 152-153) a tutti imposta (lata, ibid.) e ciò per proteggere i cittadini dalle zanne (cruento / dente, 150-151) di tali poesie considerate ormai mala carmina (153)" (Epist.).
«Lo scherzo fescennino», Fescennina iocatio, come lo chiama Catullo, per la sua teatralità e per la caratteristica causticità e mordacità, entrando nella cultura romana attraverso la figura dell’attore etrusco (il ludius), è potuto confluire nel genere della “satura”, il cui avvento segna la nascita del teatro romano.
In Etruria, il termine satura si applicava in origine a celebrazioni e offerte alla dea Cerere accompagnate da canti e scene giocose, caratterizzate dallo scambio di motti mordaci e licenziosi tra schiere di giovani, che poi fu vietato poichè portava a coinvolgere in queste battute anche le personalità politiche.
L'aggettivo latino satur ("pieno, sazio"), condivide con l'avverbio satis ("abbastanza") la radice implicante il concetto di varietà, abbondanza, mescolanza.
Il termine sarebbe quindi passato a indicare un componimento poetico di contenuto vario, una sorta di miscellanea.
I Satiri (in Greco, Σάτυροι — Sátyroi) erano nella mitologia del mondo greco e romano degli esseri che vivevano nei boschi circondati da una natura selvaggia, immaginati in forma umana, barbuti, ma con orecchie, coda e talvolta zoccoli di cavallo, personificazione della fertilità e della forza vitale della natura, connessa con il culto dionisiaco.
Conformemente al loro aspetto semianimalesco, sono sensuali, aggressivi, ma anche vili. Esiodo li definisce buoni a nulla che giocano dei tiri ai mortali.
Vengono dipinti o descritti come esseri lascivi, spesso dediti al vino, a danzare con le ninfe ed a suonare il flauto, talvolta con un vistoso fallo in erezione.
Il loro principale esponente era Sileno, una divinità minore associata, come Hermes e Priapo, alla fertilità. Sileno è pingue, stordito e allegro, dedito ai bagordi e all'ubriachezza, sfrenato e senza limiti.
Histriones, qui ab Etruria veniunt, omnes facetiis superantGli attori comici, che provengono dall'Etruria, superano tutti nelle facezie
I primi "ludi scaenici" furono celebrati nel 364 a.C. quando, come racconta Tito Livio, per scongiurare una pestilenza furono fatti venire a Roma dall'Etruria danzatori, musicisti e mimi.
"sine carmine ullo ad tibicinis modos saltantes"
Gli attori etruschi giunti a Roma che, non parlando il latino, si limitavano a rappresentare spettacoli di pantomima, danza, e musica, erano gli "histriones", dal latino "histrio-nem", dall'etrusco "híster", danzatori ("ludiones") con accompagnamento di tibie.
La loro eleganza ed agilità, che derivava dalle danze tradizionali dei Cureti e dei Lidi, progenitori degli Etruschi, unitamente alla novità dello spettacolo, riuscì piacevole agli occhi dei Romani, e poiché i mimi di professione erano in lingua etrusca detti "istrioni", furono poi chiamati dai romani con tale nome tutti gli attori, sia comici che tragici.
I giovani cominciarono ad imitare i primi fescenninna licentia "scambiandosi lazzi fra loro insieme a versi di rozza fattura” (Livio).
Si potevano distinguere due tipi di fescennini: quelli inscenati (vere e proprie rappresentazioni) e quelli liberi (matrimoni, trionfi e feste contadine).
«Quid me constricta spectatis fronte Catone,
damnatisque novae simplicitatis opus?
Sermonis puri non tristis gratia ridet,
quodque facit populus, candida lingua refert.»
«Perché guardate me con fronte aggricciata, o Catoni,
e censurate un'opera di inedita schiettezza?
Qui ride la grazia ilare d'un parlar puro,
e la lingua verace riporta quello che fa il popolo.»
Petronio, "Satyricon" (I sec. d.C.)
Il carattere licenzioso e gli attacchi a personalità di spicco dell'epoca incorsero nello sfavore delle autorità, che misero dei limiti a queste rappresentazioni.
In età imperiale rimasero solo i Fescennini liberi.
“Totus mundus agit histrionem”
William Shakespeare
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